E’ passato appena qualche anno dalla fine della guerra e l’atmosfera di sovreccitazione che ha accompagnato la Liberazione non può occultare la gravità del compito che attende i governanti e la popolazione tutta.
Il Paese ha tanti problemi non tutti facile da districare. La produzione agricola è in diminuzione del 60% rispetto a quella del 1938, distrutto il 70% delle attrezzature portuali ed industriali, fuori uso il 60% delle strade statali, le ferrovie dissestate, distrutti ed inabitabili 6.700.000 vani. Tutti gli italiani si industriano, in vario modo, a sbarcare il lunario. Sei milioni di persone sono considerate in “condizioni di miseria”.
In questo contesto di sfacelo economico il ciclismo del dopoguerra porta una ventata di redenzione, di ottimismo, di anelito alla normalità, un moltiplicatore di energia positiva per tutti quanti.

Il Giro d’Italia viene battezzato della “Rinascita” quasi che insieme ai corridori pedalasse in sintonia tutto il paese verso una meta di vittoria di redenzione, di riscatto. Il pedalare acquisisce subito il significato di rimboccarsi le maniche, di darsi da fare.

Nessuno sport come il ciclismo somiglia ad un duro lavoro. Binda dice che per vincere ci vogliono i “garun”. Il ciclismo è sognato da milioni di persone come opportunità di successo e di benessere esaltando le doti naturali sfruttando un duro lavoro fatto di allenamenti, sudore, freddo e rischi di cadute nelle strade polverose e melmose del dopoguerra. Quelle strade dove al passaggio dei corridori si riversano operai, contadini, impiegati, studenti e persino, interrompendo il rosario, i preti.
E’ una partecipazione corale di tutti i presenti: chi porge la bottiglia di acqua minerale, chi un foglio di giornale per ripararsi dal freddo, chi ha pronto il secchio dell’acqua, chi segnala i ritardi e chi comunica i chilometri che mancano all’arrivo. I ragazzini raccolgono i volantini pubblicitari e gli oggetti che vengono lanciati dalle auto al seguito. E’ un momento esaltante che dura pochi minuti ma che lascia tutti felici di esserne partecipi.
In quel dopoguerra la grande popolarità del ciclismo diventa un fenomeno che è impossibile circoscrivere nel solo ambito sportivo. Il ciclismo innesca la tendenza ad identificarsi con gli umori del Paese, si colora di contrapposizioni politiche, confronti dialettici alimentati dai media ma recepito volutamente dal popolo. L’animosità politica si sovrappone alla passione del ciclismo.
In quella Italia della “guerra fredda”, della lotta politica combattuta senza esclusione di colpi, Bartali, uomo dell’Azione Cattolica, diventa l’eroe - santo, il cavaliere senza macchia. Mentre Coppi finisce per essere identificato con l’altro schieramento socialcomunista e tanto fece Fausto per togliersi questa etichetta. A Fiorenzo Magni, grande campione, venne dimenticato il passato da fascista.
Curzio Malaparte, in un articolo del 1949, definisce Gino figlio della Fede e Fausto del Libero Pensiero. Il primo crede nella vita futura, nel Cielo, nella Redenzione, il secondo è più spirito cartesiano e volterriano, uomo scettico e concreto, pieno di dubbi, fiducioso solo in se stesso. Forse c’è qualcosa di vero nelle definizioni di Malaparte, ma queste nascono da pure differenze di origine e di carattere.
Per noi, che abbiamo vissuto quei tempi, resta il ricordo dello scorrere dei corridori lungo la salita della Circonvallazione o la discesa di “Caruboun” quando Coppi, Bartali, Magni, Corrieri, Bini, Fornara, Del Cancia e quant’altri erano impegnati nel rincorrere il loro sogno di successo.